Esemplare e dominante figura del mito greco, Ulisse, che i Greci chiamavano Odisseo (dal greco Ὀδυσσεύς, Odysseus), è forse il personaggio più seducente e versatile tra gli eroi del mondo antico.
Originario di Itaca, è uno degli eroi Achei descritti e narrati da Omero nell’Iliade, ed in seguito protagonista dell’Odissea, una decennale epopea in cui si narra il suo ritorno in patria dopo la caduta di Troia.
Al contrario di Achille, personaggio principale dell’Iliade, il quale agisce dominato dagli istinti primordiali (l’Ira in particolare), Ulisse invece (“uomo dal multiforme ingegno”), ricorre sovente a stratagemmi e ai suoi molteplici talenti, egli è la personificazione dell’astuzia, del coraggio e della curiosità, nonché simbolo di diplomazia ed abilità oratoria.
Un eroe leggendario dalla straordinaria risolutezza d’animo, era anche un acuto osservatore ed un abilissimo stratega, molto prudente. Grazie a ciò, egli poté superare difficoltà all’apparenza insormontabili, riuscendo così a ritornare nella sua amata patria, come ci narra Omero nell’Odissea.
« Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον,ὃς μάλα πολλά
πλάγχθη, ἐπεί Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν »
« Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto vagò,
dopo che distrusse la rocca sacra di Troia »
Ulisse è considerato uno degli eroi più valorosi, inferiore solo ad Achille ed Aiace Telamonio, ma è il primo fra tutti per quanto concerne l’intelligenza strategica e l’astuzia politica. A lui non vengono attribuiti i soliti epiteti degli altri combattenti, quali “omicida” o “distruttore di schiere”, bensì le sue qualità sono riferibili all’eloquenza persuasiva, alla sagace razionalità, alla pregevole lungimiranza. Queste facoltà vengono approfondite nell’Odissea, e addirittura egli stesso dimostra di vedersi diverso e più complesso rispetto agli altri eroi.
Odisseo è l’eroe multiforme, diverso dal solito che si fonda solamente sul valore guerriero e sul senso dell’onore, egli infatti si adatta alle circostanze, senza affrontarle con uno slancio distruttivo. Sua è la caratteristica dello spirito indomito, che lo spinge ad esaminare uomini e cose, a cercare di scoprire il bene e il male ed il limite che li contraddistingue, alla continua ricerca del senso della vita, ma, come ogni eroe, è destinato a perire senza aver ricevuto alcuna risposta.
Per la sua sete di conoscenza, per il non domato spirito e per quel sofferto e doloroso amore per la vita che lo avvicina all’uomo moderno, Ulisse resta tra gli eroi dell’antichità la personalità di maggior rilievo, insostituibile e indiscusso emblema della storia dell’umanità ai confini della leggenda: valoroso condottiero con una grande capacità intellettiva, nonostante la sua bramosa sete di conoscenza, durante il suo lungo ed avventuroso viaggio era sovente assalito da momenti di sconforto e profonda nostalgia della patria e dei suoi familiari.
Figlio di Anticlea e di Laerte, da parte materna è nipote di Hermes, il Dio Mercurio, anch’egli un grande oratore e finemente astuto, una genesi sicuramente determinante. In gioventù, secondo la tradizione tarda, Ulisse venne educato dal centauro Chirone e, divenuto adulto, ottenne il trono di Itaca e sposò Penelope, figlia di Icario, re di Sparta, e cugina di Elena, da cui generò Telemaco.
Per non recarsi alla guerra di Troia, Ulisse, che amava teneramente la giovane moglie e non voleva allontanarsene, si era finto pazzo, ma Palamede, re dell’isola di Eubea, pose davanti al suo aratro il figlioletto Telemaco e ne rese così manifesto il raggiro. Ulisse infatti, costretto a bloccare l’aratro per non travolgere ed uccidere il bimbo, mostrò suo malgrado di essere sano di mente e di conseguenza non gli fu ulteriormente possibile sottrarsi alla “chiamata alle armi”.
Nell’Iliade egli viene descritto come un ardito guerriero, ma la figura di Odisseo è soprattutto quella d’un abile oratore e stratega, non puramente di un guerriero. Quando egli parlava si trasformava, catturando con incredibile magnetismo l’attenzione degli astanti, ma ivi non era una figura di spicco, la figura centrale del poema, mentre nell’Odissea l’eroe greco è il protagonista dell’intero poema, che prende appunto da lui il nome.
In questo secondo poema epico di Omero, si pone l’accento sulle arti dell’ingegno piuttosto che sul valore militare di Ulisse. L’interminabile navigazione nel Mediterraneo (che si protrae per dieci anni) lo porterà a conoscere popoli e culture diverse, il viaggio in mare rappresenta la vita, con le sue difficoltà ed imprevisti, e ciascuno, alla fine, riesce ad approdare in un porto sicuro soltanto quando ritrova se stesso, tuttavia, al contempo, si può approdare ovunque ma non sarà mai possibile “sbarcare” da se stessi.
In fondo si potrebbe condensare così l’Odissea di ogni individuo, ben rappresentato da quello che Jung chiama “l’archetipo Odisseo”: l’inquieto decennale errare di Odisseo, dopo la distruzione di Troia, e ancora, nelle molteplici rivisitazioni del mito, dopo il ritorno ad Itaca, di nuovo ad errare ed errare per mare, fino alla morte.
Dante, Tennyson, D’Annunzio e Pascoli immaginano che riprenda a navigare per cercare, cercare e forse trovare il senso della vita, del tempo, dello spazio, dell’essere Uomo. Più probabile però che Ulisse abbia compreso che non v’è alcun senso oltre, né significato recondito da carpire: casuale la vita, ineluttabile la morte; in mezzo, un senso che ognuno di noi cerca, in completa solitudine, di dare a questo viaggio senza ritorno, chiamato “vita”.
Ed il viaggio di Ulisse rappresenta in un certo qual modo anche il nostro. Il viaggio, la voglia di “evadere”, di conoscere, di sfidare quell’ignoto, quel qualcosa vicino o lontano che ci attrae verso la nostra Itaca, la nostra meta, il nostro desiderio. Un cammino che ci porta all’esperienza della realtà ma soprattutto alla conoscenza di noi stessi.
A volte invece restiamo delusi dalla stessa realtà e così fuggiamo col nostro viaggio, perché forse il viaggio ci serve per crearci un mondo dove possiamo avventurarci insieme alle possibilità di migliorarci, ma è cosa questa che ci induce a non approdare mai, che ci pone sempre davanti ad una sfida, ad una voglia di conoscere, di provare, di proseguire anche se con forte nostalgia di quelle poche sicurezze che lasciamo.
E questo rappresenta Odisseo, l’impossibilità di spiegare a noi stessi chi siamo, e quale scopo abbia la nostra vita, il senso della vita ricercato in ogni viaggio. Forse si viaggia per viaggiare, senza barattare il viaggio con la meta, come se ogni secondo fosse l’ultimo, raggiungere il tempo per fissarlo almeno un attimo negli occhi. Alla fine Ulisse approderà ad Itaca, ove trarrà vendetta sui Proci, ricongiungendosi con la famiglia, la fedele sposa Penelope e l’amato figlio Telemaco, eppure ciò non lo fermerà dal ripartire ancora una volta, alla volta dell’ignoto…
Tutto si è compiuto. Nella pace che segue la tempesta, dopo tanto sangue e tanta tribolazione, Odisseo trova il sospirato riposo. Nella pace dell’eroe, infine tornato ad Itaca, finalmente tra le braccia della sua adorata Penelope, l’eroe stesso avverte però una sorta di svuotamento di senso, percepisce l’incompiutezza, la precarietà del vivere.
Egli, nel momento in cui si svela a Penelope, la informa della previsione dell’indovino Tiresia, secondo la quale è destino che debba lasciare ancora Itaca per intraprendere un nuovo viaggio e morire infine nel mare.
Ma, fiero del suo orgoglio di essere mortale, l’eroe, l’essere mortale dai sentimenti divini, Ulisse rifiuta comunque il dono dell’immortalità. Ciò avviene nel libro V dell’Odissea, il quale si apre con un concilio degli Dèi in cui Atena ribadisce la necessità di inviare Hermes dalla Ninfa Calypso, affinché questa lasci libero Odisseo, il re giusto, l’uomo dotato di grande pìetas, di ripartire per Itaca.
L’isola di Calypso è Ogigia, nell’ombelico del mondo, il luogo fuori dal tempo e fuori dallo spazio, una sorta di Limbo, uno spazio inesistente, ma è ovunque, il centro di ogni cosa. L’isola di Ogigia ha le caratteristiche di un regno ai confini del mondo, il mare intorno è deserto, lo stesso nome di Calypso deriva dal greco nascondere o nascondersi, dunque ella sarebbe “occultatrice”, e in effetti questa Dea, solitaria come nessun’altra, riesce a tenere occultato Ulisse per un periodo di tempo lungo ben sette anni.
L’affascinante Ninfa abitava in una grotta profonda, con molte sale, che si apriva su giardini naturali, un bosco sacro con grandi alberi e sorgenti che scorrevano attraverso l’erba, e trascorreva il tempo a filare e tessere con le sue ancelle, anch’esse Ninfe, che cantavano mentre lavoravano. Ulisse, dopo aver visto annegare tutti i suoi compagni, lui solo scampato al vortice di Cariddi, era approdato sull’isola, quasi morto, e Calypso lo raccolse e lo curò, se ne innamorò appassionatamente, lo amò e lo tenne con sé, secondo Omero, per sette anni, offrendogli appunto l’immortalità, ma che l’eroe insistentemente rifiutava.
Ulisse conservava in fondo al cuore il desiderio di tornare ad Itaca e, pur ricambiando l’amore della bella Ninfa, non si lasciò sedurre fino al punto da dimenticare Itaca ed i suoi affetti: la moglie Penelope, il vecchio padre Laerte, il giovane figlio Telemaco ed il fedele cane Argo. Ma per sette anni, volati come un attimo, l’incanto della giovane e bella Calypso lo coinvolse profondamente, tanto da annullare il senso e la percezione del tempo: con Calypso era un’eterna primavera, giornate solari e notti da favola popolate di stelle.
Sull’isola di Ogigia il tempo scorre lentissimo: come il giardino delle Esperidi, come i Campi Elisi, Ogigia non è un luogo per vivere, ma per conoscere. Odisseo però piange sulla riva del mare, durante questi sette anni: pur ammaliato dalla Ninfa, sente chiaramente di essere esistito per tutto quel tempo, ma non ha vissuto.
Calypso tenta di trattenere l’amato con questa carta formidabile, promette a Odisseo l’immortalità, gli dice anche che la donna che ama invecchierà e sfiorirà il suo amore. Odisseo però è sicuro di poter e voler amare l’essenza di Penelope e, soprattutto, vuole ritornare a “vivere”, quindi rifiuta con tenacia l’offerta di Calipso.
Essere immortale, vivere per sempre così, implicherebbe la scomparsa di tutti coloro che hanno costituito il mondo dei suoi affetti, avrebbe schivato vecchiaia e morte, ma, quelli che lo avevano amato e che lui aveva amato, sarebbero diventati ombre dell’Ade, sperdute nei meandri della fioca luce degli Inferi.
Tenerli con sé, che anch’essi fossero partecipi della sua immortalità ed eterna giovinezza, questo solo egli avrebbe potuto accettare. Ma era chiedere troppo a Calypso, innamorata di Ulisse, non certo di coloro che Ulisse amava e rimpiangeva.
Pertanto, nonostante il sortilegio da cui era stato penetrato, Ulisse preferì la sua vita di mortale tra i suoi cari mortali, la sua Penelope. Penelope, la donna, totalmente mortale, per cui Ulisse ha rifiutato il letto di Dee immortali e la possibilità di diventare come loro. Il ritorno da lei è visto come il telos, la finalità a cui tende tutto il poema.
Lei che ha un’immensa ed integrale fiducia nel marito e nelle sue capacità, sa che Ulisse non ha fallito, nel suo profondo sa che non può essere morto e che farà ritorno in patria, dovessero passare altri vent’anni, dovesse ella attendere un’intera esistenza, ed è per questo che tesse e ritesse, disfa continuamente la sua tela per fuorviare i Proci, sa che prima o poi il suo amato tornerà da lei.
Ulisse, che tutti i giorni piange sullo scoglio più esposto guardando il mare, è di nuovo pronto per riprendere a navigare. Calypso non può che lasciarlo andare, anche perché Zeus le ha ormai ingiunto di liberarlo, ma Ulisse sospetta che le sue parole di dolce congedo nascondano “un altro male”, un’altra astuzia per invischiarlo e trattenerlo. Ferita dalla tenerezza, Calypso chiama allora Ulisse alitros, “furfante”, e gli accarezza la mano. Nessun’altra donna avrebbe usato con lui una parola così intima e così giusta.
Un’altra importante dote dell’eroe è il suo essere un encomiabile capo, un vero leader, nella dimostrazione di affetto, generosità e senso di responsabilità nei confronti dei suoi compagni, e viene posta in risalto dal suo incontro con la Maga Circe. Circe è una Dea, figlia del Sole e della Ninfa Perseide, che vive in una magnifica reggia sull’isola di Ea (identificata con il Monte Circeo, che da lei prende nome), insieme a quattro Ninfe, immortali come lei, che le fanno da ancelle. Dotata di straordinari poteri magici, ella tramuta in porci i compagni di Ulisse, come è solita fare con tutti gli uomini che giungono da lei.
Circe è di tutt’altro stampo rispetto a Calypso, rappresenta la dimensione primordiale dell’istinto e della sensualità, la quale rende gli uomini (che non riescono a superarla) simili ad animali. Personificazione dell’ambivalenza dell’uomo nei confronti delle donne, Circe riesce perfettamente ad incarnare sia le paure maschili che le ansie femminili, nei confronti dei poteri apparentemente magici attribuiti alla collera delle donne.
Ma il filtro di Circe non fa che portare alla luce la natura “bestiale” dei compagni di Ulisse, e la loro trasformazione in animali non è altro che l’oggettivazione della collera della Maga nei confronti di “maschi” che vogliono consumare un atto sessuale al di fuori del contesto dell’affettività e dell’amore, usando il corpo femminile come un semplice oggetto di piacere e null’altro.
Le capacità seduttive di Circe fanno presa anche su Ulisse, ma la conoscenza più approfondita della sua affettività, fa sì che l’impietosa Circe non possa trasformarlo in animale, e che anzi s’innamori di lui. Il salto di qualità compiuto da Ulisse nei suoi rapporti con il femminile e la sua presa di coscienza del problema della sessualità riscattano anche gli altri membri della sua specie, liberandoli dall’apparenza belluina.
Così Ulisse, grazie anche all’aiuto di Hermes che gli suggerisce di accettare l’amore della Maga per persuaderla a restituire la forma umana ai suoi fedeli compagni, dopo quasi un anno di instancabili tentativi riesce a farle rompere l’incantesimo e riceve perfino sostegno dalla Dea, sotto forma di accorgimenti, per superare le Sirene ed il loro stregato canto, al momento della sua partenza per riprendere il viaggio fino a casa.
In definitiva l’Odissea è un poema avventuroso, quasi romanzesco, dove l’eroe è uno solo, e non più in veste di combattente. Egli si oppone inerme ai pericoli della via, agli elementi avversi della natura, all’ira implacabile di un nume che lo perseguita, non aspira alla conquista di una città nemica, ove porre il piede da vincitore, bensì al ritorno in patria, per riposare il suo piede sulla sua isola cara, e chinarsi a baciare commosso le zolle della sua terra.
Il suo eroismo è fatto di fede e di perseveranza, d’amore per la sposa che lo attende, per il figliuolo lasciato bambino e che rivedrà uomo: sono queste le forze che lo guidano e lo sostengono, rendendolo “insommergibile” dalle onde dei mari e dalla sventura, sordo alle lusinghe di chi cerca di trattenerlo per la via.
Nell’Eneide, dove Ulisse viene giudicato dalla parte troiana e quindi romana, non è espressa da Virgilio un’opinione positiva su di lui: il più grande poeta della letteratura latina condanna, fra l’altro, lo stratagemma del cavallo di legno, ideato da Ulisse e costruito da Epeo, che pose fine con un vile e riprovevole inganno all’eroica resistenza di Troia.
Nella Divina Commedia invece, Dante colloca Ulisse all’Inferno, fra i consiglieri fraudolenti, in mezzo a quanti durante la vita terrena hanno dato al prossimo suggerimenti ingannevoli. Nel XXVI canto egli appare avvolto in un’unica fiamma a due cime assieme a Diomede (l’amico più caro di Odisseo nelle vicende troiane), d’intesa col quale era stato autore ed artefice di inique gesta: sono lingue di fuoco che nascondono la loro figura, come essi nella vita hanno oscurato la verità (pena del contrappasso).
Il poeta pone Ulisse tra i fraudolenti per vari motivi, politici e morali: l’inganno del cavallo, il furto del Palladio che sottolinea il suo disprezzo per le cose sacre, l’abbandono della famiglia per appagare la sua sete di conoscenza, il superamento delle colonne d’Ercole alla ricerca dell’ignoto, azione empia nei confronti degli Dèi.
Ma la sua figura assume una dimensione eroica quando, testimoniando una diversa versione circa la conclusione della vita dell’eroe, Dante racconta di una seconda partenza da Itaca con gli anziani compagni, nell’ardente ansia “di divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore”, diviene eroico per lo stesso attraversamento del limite imposto dalle Colonne d’Ercole ed il “folle volo” verso la montagna del Purgatorio, quando un turbine provocò l’affondamento dell’imbarcazione ed egli perì con l’intero equipaggio, esemplare punizione per la sfida alle leggi eterne e i divieti divini.
Celebri rimangono le terzine che Dante mette in bocca all’eroe quando intende persuadere i compagni a spingersi verso l’Oceano: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Questo è l’episodio della morte di Ulisse: oltrepassando le colonne d’Ercole infatti, l’eroe e i suoi compagni naufragano penosamente vicino alla montagna del Purgatorio.
Per Dante questo viaggio simboleggia il proposito di oltrepassare i limiti della conoscenza umana, della compiutezza del genere umano. Il peccato di Ulisse, oltre all’inganno che ha prodotto sofferenza e dolore, è l’aver portato all’estremo la propria virtù cercando di assomigliare a Dio. L’eroe dimentica di essere un semplice essere umano, e glorifica le proprie capacità trasformando ciò che era positivo, ovvero il desiderio di seguire la virtù e la conoscenza, in un’insensata voglia di superare il limite.
Ulisse è il riflesso di Dante al negativo: sono entrambi degli scopritori, ma Dante è approvato da Dio, Ulisse è un ribelle. Dunque, in questo passo dell’Inferno, il poeta condanna Ulisse per le colpe che ha commesso ma, intimamente, non riesce a non esaltarlo, tanto che il racconto del naufragio occupa ben trentasette versi.
All’ambiente culturale romantico appartiene poi il celebre Ulisse del poeta inglese Alfred Tennyson. Il testo è un monologo dell’eroe che, tornato in patria, non riesce ad abituarsi alla nuova vita, dedicata agli ozi e alla tranquillità, alla quale si mostra insofferente. Ulisse decide così di salpare per un altro viaggio verso l’ignoto.
Con queste parole Ulisse si rivolge ai suoi compagni: “È stupido fermarsi, imporsi una fine: e sarebbe vile, per pochi anni, mettere da parte e risparmiare me stesso e questo spirito che si strugge nel desiderio di seguir conoscenza”. È evidente come Tennyson guardi più all’Ulisse dantesco che non a quello di Omero (lo dimostrano anche alcune formule riprese in inglese “seguir conoscenza” / “to follow knowledge”), ma con una sostanziale differenza.
I due poeti guardano con prospettive opposte il personaggio di Ulisse: mentre Dante lega Ulisse ad un giudizio morale negativo, Tennyson vede l’eroe romantico per eccellenza, il Faust con la sua Sehnsucht, la malattia del desiderio e dell’ansia di conoscenza, l’uomo che vuole spingersi oltre i limiti imposti ed affermare se stesso.
Il nome Odisseo ha un’etimologia alquanto incerta. Lo stesso Omero cerca di spiegarla nel libro XIX, connettendola al verbo greco “οδυσσομαι”, il cui significato è “odiare”, ma anche “essere odiato”. Odisseo, quindi, sarebbe “colui che odia” (in questo caso i Proci, che approfittano della sua assenza per regnare su Itaca) oppure “colui che è odiato” (in questo caso da tutti coloro che ostacolano il suo ritorno in patria).
L’origine del nome però non proviene dalla Grecia, bensì da una regione dell’Asia Minore, la Caria. In questa regione, Odisseo era il nome di un Dio marino, il quale, in seguito all’invasione delle popolazioni indoeuropee, è stato assimilato nella figura di Poseidone. Ciò dunque, fa intuire che l’Odissea tragga le sue radici da antichi racconti marinari. Il nome, in definitiva, può avere il significato di “Colui che odia ed è odiato”.
In ogni caso, il nome gli venne dato da Autolico, padre di Anticlea, il quale si recò ad Itaca poco dopo la nascita del bimbo e la sera, al termine del banchetto celebrativo, prese il piccolo sulle ginocchia ed Anticlea gli chiese di dare egli stesso il nome al nipote. Autolico asserì: “Nel corso della mia vita mi sono messo in urto con molti principi e chiamerò dunque il mio nipote Odisseo, che significa Il Rabbioso, perché sarà vittima delle mie antiche inimicizie”.
Secondo un’altra versione il nome deriverebbe da un gioco di parole greco “Zeus pioveva sulla strada”, poiché Odisseo era nato in un giorno di pioggia.
Il nome Ulisse invece (Ulixes in latino, Ulixe in etrusco e Oulixes in siculo), datogli da Livio Andronico nella sua traduzione dell’opera, la prima in assoluto al di fuori dal greco, significa “Irritato”, ed è stato scelto dal traduttore perché era abbastanza diffuso nel mondo latino e per l’assonanza con l’originale, a differenza di Odysseùs che suonava tipicamente straniero.
Data la lunghezza dell’articolo, il post è stato diviso in più pagine:
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