Una delle storie della tradizione elfica italiana tramandata a voce da millenni. Con i sussurri è giunta a noi, ha viaggiato nel folto delle foreste, si è arrampicata attraverso i secoli. Ed allora leggiamo insieme la storia della ninfa Biancofiore…
C’era una volta in mezzo ai campi, lungo la strada maestra, una povera casa che somigliava a quelle disegnate dai bimbi, con una porticina, due finestre e un comignolo sul tetto, cinta da una siepe di spino brulla d’inverno, arida e polverosa nella buona stagione.
Un comignolo fumava sempre, perché nonna Saveria alimentava il fuoco con rami verdi, spesso umidi, raccolti qua e là per i greti dei fossati, o per le callaie. Ma fuscelli, giunchi, foglie servivano per cuocere un po’ di cibo a Serenella, la nipotina, e per riscaldare durante l’inverno.
Nonna Saveria, piccola, bianca, secca, con le mani quasi trasparenti, filava sempre accanto al focherello e vendeva le matasse ad un mercante che passava per il villaggio; Serenella, bionda più d’una spiga, chiara negli occhi come la primavera, porgeva i bioccoli di lana, riponeva le matassine filate, e se ne stava lunghe ore pensosa, senza giochi e senza letizia, come se per la felicità le mancasse qualche cosa.
Un giorno il comignolo non innalzò il suo pennacchio di fumo, perché nonna Saveria rimase a letto con la febbre e Serenella non trovò più fuscelli nel cesto accanto al focolare, più farina nella madia, più lana da filare nel cassettone. Era inverno e fuori la terra era gemmata di brina, le piante stellate di ghiaccioli, i fossi lucenti di specchi di ghiaccio; e la nonna tossiva penosamente, senza chiedere nulla per sé, trepida solo della nipotina, che doveva aver freddo e fame.
Serenella si guardò intorno sgomenta, e udì una vocina sottile sottile che la chiamava; la voce veniva dal focolare e la bimba non tardò molto a scorgere la testina nera di un grillo, il quale veniva fuori da un buco con archetto e violino, per mettersi in un angolo e intonare:
«Serenella, Serenella!
Per le rive, per la neve,
c’è una bianca reginella
ben ravvolta in nube lieve
esci dunque, Serenella!»
La bimba rimase perplessa, ma, poiché il grillo del focolare seguitava a dirle quelle parole misteriose, aspettò che la nonna si assopisse, quindi si ravvolse in un vecchio scialle ed uscì pian piano, pensando: “Troverò qualche giunco e farò un focherello a nonnina.”
Camminò pel sentiero, trascinandosi dietro gli zoccoli, stringendosi sul petto i lembi dello scialle, cercando con gli occhi qua e là, ma le vecchie foglie erano fradice, qualche fuscello abbandonato si spezzava tra le dita, consumato dal gelo.
Mentre si curvava al ceppo d’una quercia con ostinata e fiduciosa ricerca, si sentì tirare dolcemente le trecce bionde, che uscivano al di sotto dello scialle.
«Che fai, bambina?»
Serenella sollevò i suoi chiari occhi primaverili e vide una giovane donna, bianca come la neve, vestita di veli, quasi trasparente sullo sfondo della campagna, come fosse composta di vapori tenui. Lo splendore argentato della visione era rotto dall’oro dei capelli, un oro pallido, diffuso, come raggio di sole attraverso le nubi invernali.
«Pochi fuscelli gelati» disse la strana apparizione «durerebbero poco e non toglierebbero nulla alla tua fame e a quella della tua nonna. Ascoltami, ti darò molta lana, tu la filerai e porterai il lavoro compiuto a questa quercia; batterai tre colpi sul tronco, chiamando Biancofiore, io verrò fuori, prenderò le matassine e ti darò nuova lana; così tutte le settimane. In compenso troverai nella tua casa fuoco e cibo.»
Serenella disse: «Sì! Sì!» con un trillo di gioia, senza pensare che non aveva mai provato a reggere la conocchia e a prillare il fuso. Biancofiore le caricò le braccia di filoni di lana e sparì in uno scintillio di nebbia.
La bambina trotterellò verso casa con quel peso inusitato, un po’ traballando sugli zoccoli, con le manine intirizzite, ma con il cuore traboccante di una gioia strana. Trovò sul focolare un bel fuoco crepitante su da un ceppo, tutto braci rosse e fiammole azzurre; appesa ad una catena c’era una pentola da cui si sprigionava col vapore uno squisito odor di brodo; nella madia molto pane, sul cassettone un decotto per la nonna.
Serenella servì la vecchietta e prese il suo posto accanto al focolare con la conocchia erta da un lato e il fuso pendente dall’altro. Com’era difficile reggere l’una e muovere l’altro! I bioccoli di lana sfuggivano, si spargevano a terra, non obbedivano alle dita della bimba, che cercava di torcerli; il fuso, poi, si ostinava a rimaner fermo e, se roteava, faceva sbalzi improvvisi, rompendo il filo attaccato con tanta fatica.
Serenella non si sgomentava, rizzava la conocchia, raccoglieva i bioccoli dispersi, torceva, prillava, riprovava, con una perseveranza che le veniva dal cuore. Finalmente, le ciocche di lana si assottigliarono in filo, e il fuso girò con ritmo abbastanza regolare.
Alla fine della settimana tutta la lana era filata, un po’ grossa, con qualche nodo, a matasse non ben ravviate, ma Serenella disse a Biancofiore, presso la vecchia quercia: «È la prima lana che filo, quest’altra volta farò meglio.»
Biancofiore prese alcuni fili, li foggiò a forma di stella e disse: «Appendile alla siepe della tua casa.» Le diede nuova lana e sparì con un barbaglio di nuvola.
Serenella camminò per i campi, tra le falde di neve che cominciavano a turbinare nell’aria, e quando fu presso la brulla siepe che circondava la sua dimora si fermò per appendere ad uno sterpo le stelline di lana di Biancofiore, ma qualcosa frullò sul suo capo, un battito d’ala ed un uccello piccolo e gramo le si posò sulla spalla.
«Dammi quelle stelline!»
La bimba, ancora un poco spaurita dal volo improvviso, rispose: «Non posso, devo obbedire a Biancofiore.»
L’uccello cinguettò dolcissimamente: «Sono Trillodoro, l’usignolo di maggio. Al cader dell’autunno avevo male ad un’aluccia e non potei volare in paesi più caldi. Abito in un buio gelido e le mie piume non bastano a ripararmi dai soffi del vento… dammi le tue stelline, voglio farmi un nido per non morir di freddo.»
Serenella si commosse e diede le stelle di lana all’usignolo che frullò via tra i fiocchi di neve. Così per tutta l’invernata Biancofiore, mentre consegna la lana da filare, formava stellin di filo: «Appendile alla siepe de la tua casa.» Ma Serenella donava le minuscole stelle a Trillodoro, ci veniva sempre ad incontrarla al ritorno.
Un giorno, non c’era neve e l’aria inazzurrata sapeva di viole, Biancofiore disse alla bimba: «Raccogli le mie stelline di lana e portale al ceppo della quercia.»
Serenella s’allontanò sgomenta, affondando gli zoccoli nell’erba umida, che cresceva a ciuffi tra gli specchi d’acqua; i salici, i giacinti di penduli fiori d’oro, ondeggiarono sul suo capo come per confortarla, come per suggerirle un’idea, e questa venne perché, appena a casa, la bambina chiamò: «Grillo del focolare!»
Il grillo canterino venne fuori e chiese: «Cosa desideri?»
«Biancofiore vuole le sue stelline di lana.»
Il piccolo musicista intonò sul violino: «Stelle di lana, stelle di luna darò nel maggio, a notte bruna.»
Serenella tornò sui suoi passi, bussò al vecchio albero e Biancofiore, vestita ora di veli glauchi e viola come l’aria di primavera, ripeté timida, pavida le parole del grillo. «Va bene, aspetterò maggio.»
La bimba lavorò ancora, ma si rattristava delle margheritine che costellavano i prati, i mandorli e dei meli che sfiorivano, dei melograni che rossegiavano di fiori, del sole che si faceva più vivo, delle rondini che garrivano, garrivano la gioia nei cieli, delle prime rose che si aprivano; insomma, di tutte quelle cose meravigliose che annunziano maggio.
La sera di Calendimaggio, allorché la luna inondò di chiarità i campi, Serenella udì cantare nella siepe, era un canto di gioia ed ella ne capì improvvisamente le parole:
«L’usignolo Trillodoro
t’ha portato il tuo tesoro
di stelline piccoline, tutte bianche,
tutte in fiore,
per la ninfa Biancofiore.»
La bambina uscì e vide che la siepe di spino era tutta fiorita di bianco, meravigliosamente, la fragranza inondava l’aria pareva una sola cosa con il canto dell’usignolo.
«Grazie, Trillodoro! Porterò subito un fascio di biancospino a Biancofiore!»
La ninfa, come avesse udito le sue parole, le apparve vestita questa volta di raggi di luna, le fece una carezza lieve sui capelli e sparì nella chiarità diffusa.
A quella carezza Serenella capì che si può essere felici in una casa con una porticina, due finestre, un comignolo sul tetto simile a quelle disegnate dai bambini, con un grillo sul focolare, una siepe di biancospino, un usignolo che canta. Capì che la felicità è fatta di cose piccine nate dal cuore.
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