Orfeo era un giovane tracio, figlio della musa Calliope e del Dio Apollo. Egli aveva nel canto e nella cetra la sua più grande qualità, che lo rese famoso in tutta la Grecia, dove lo consideravano come il maggior poeta vissuto prima di Omero.
Dicevano di lui che col suo canto dolcissimo aveva il potere di muovere gli alberi e di rendere mansuete le belve.
Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti di Giasone, alla conquista del Vello d’Oro, e al ritorno dell’impresa s’innamorò di una bellissima Ninfa, che le fonti classiche tarde identificano con Euridice. Ma, al contempo, il pastore Aristeo, innamoratosi pazzamente di Euridice, di continuo la importunava con le sue proteste d’amore.
Un brutto giorno spinse costei alla fuga nei boschi, ma sfortunatamente ella venne morsa da una serpe velenosa e spirò. In quanto ad Orfeo, il suo strazio per la morte inaspettata della sua adorata sposa non può essere descritto: piangeva, si disperava, si aggirava come un pazzo per le aspre gole della montuosa Tracia, ma nulla poteva lenire il suo immenso dolore… l’immagine di Euridice lo seguiva dappertutto e rendeva più tormentosa la sua angoscia.
Alla fine, persuaso di non poter più vivere senza la sua Euridice, decise di andare a cercarla nell’Erebo, a supplicare gli Dèi infernali di restituirgli la sua amata. Inizia così una delle più struggenti (e rare) catabasi della mitologia greca, con Orfeo che scende nell’Ade, nelle tenebrose case dei morti.
Gli Dèi dell’Averno sono inesorabili, non si commuovono alle lacrime degli uomini, tuttavia i desolati accenti della sua lira, il suo lamentoso canto funebre, le sue affannate implorazioni avevano fatto accorrere le anime dei trapassati da ogni più remoto angolo, e tutte ascoltavano, silenziose come gli uccelli della notte.
Cerbero non latrava più, Caronte non traghettava più le ombre, la ruota d’Issione si era fermata, Tantalo non sentiva più sete né fame, tutti i tormenti erano stati sospesi per virtù di quel canto.
Orfeo raggiunse finalmente Ade e Persefone, riuscendo a commuoverli e a strappar loro la promessa di riavere Euridice: Ade, il malinconico re di quel lugubre regno, sentì per la prima volta nel gelido cuore un sentimento di pietà, e concesse dunque ad Orfeo la grazia di riportare Euridice rediviva alla luce del sole.
Con un patto però, solo dopo una dura prova: durante la risalita al mondo terreno Orfeo sarà seguito dall’anima della sua sposa, ma egli non dovrà voltarsi a guardarla per nessun motivo, prima che ella non sia stata bagnata dalla luce del sole.
Intrapresero dunque il lungo cammino del ritorno, in un silenzio spettrale rotto soltanto dalle poche domande di Orfeo ad Euridice e dai passi di lui, essendo ella ancora incorporea.
«Sei ancora dietro di me, oh, mia tenerissima?»
«Sì, Orfeo caro, ma non voltarti, ti supplico!»
Ecco la luce finalmente! Orfeo era già bagnato dalla luce del sole, ma Euridice ancora no. Egli era impaziente, si sedé su una roccia, aspettò qualche attimo e poi si voltò: fu un momento infinito eppure così rapido…
Il viso delicato di Euridice da sereno si fece atterrito: non era ancora bagnata completamente dal sole. Il freddo la avvolse di nuovo, come un vento sferzante, e la trascinò inesorabilmente, questa volta per l’eternità, tra le praterie desolate di asfodeli dell’Ade.
Divenne come trasparente ombra, si dissolse in un fumo di nebbia. La porta dell’Inferno si richiuse ed invano il desolato poeta restò lì fuori per ben sette mesi, aspettando che essa si riaprisse. Persuaso alla lunga della vanità della sua attesa, Orfeo ritornò tra gli uomini.
Nel corso dei secoli molti poeti e filosofi si sono interrogati su questo gesto avventato di Orfeo, giungendo a pensare che sia stato un gesto meditato, perché il mancato amore produrrebbe maggior ispirazione di un amore consumato, ma sono speculazioni di poeti e drammaturghi che forse l’amore vero non hanno mai perso…
La delusione dopo la speranza annullò completamente Orfeo, che abbandonò il culto allegro di Dioniso e l’amore per le donne. Odiava ormai tutte le donne e le trattava con disdegno, non poteva sopportare più i tripudi rumorosi dei riti bacchici. È considerato infatti l’inventore umano dell’amore omosessuale maschile, che egli insegnò ai Traci una volta tornato nella sua terra, perché non sarebbe stato possibile per lui riaffrontare il dolore per la perdita di una donna.
La vendetta degli Dèi per l’ennesima presunzione umana non si fece attendere: Dioniso spinse le baccanti della Tracia contro Orfeo, colpevole di aver sedotto i loro mariti, che lo uccisero riducendolo a pezzi e gettandolo in un fiume.
La testa decapitata cadde sulla lira e continuò a cantare struggenti inni all’amor perduto, tanto che Zeus ne ebbe pietà e destinò alla lira un ritratto tra le stelle del cielo notturno, la costellazione della Lira, appunto. La sua testa e la sua lira furono gettare in mare: la corrente marina le trasportò sulle rive dell’isola di Lesbo, l’isola dei poeti.
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